Da quando scrivemmo La crise du monde moderne [Paris,
1927] gli avvenimenti non hanno fatto che confermare in pieno e fin troppo
rapidamente tutti i punti di vista che allora avevamo esposto a questo
proposito, benché ne avessimo parlato astraendoci da ogni preoccupazione di
«attualità» immediata, come pure da qualsiasi intenzione di «critica» vana e
sterile. È ovvio, in effetti, che considerazioni di questo genere sono valide
per noi solo in quanto rappresentano un’applicazione dei principi a circostanze
particolari; e facciamo notare per inciso che, se in generale coloro i quali
hanno dato il giudizio più corretto sugli errori e le insufficienze proprie
della mentalità della nostra epoca si sono limitati ad un atteggiamento del
tutto negativo – salvo a scostarsene per proporre rimedi pressoché
insignificanti e comunque incapace di arginare il disordine crescente in tutti
i campi –, ciò è dovuto al loro disconoscimento dei principi veri,
disconoscimento non diverso da quello di chi, al contrario, si ostina ad
ammirare il preteso «progresso», nonché ad illudersi sul suo inevitabile
risultato.
Del resto, anche da un punto di vista del tutto
disinteressato e «teorico», non basta denunciare degli errori e mettere in
evidenza la loro realtà: questo può essere utile ma quel che è veramente
interessante ed istruttivo è spiegarli, cioè ricercare come e perché si sono
verificati, in quanto tutto ciò che esiste in un modo o nell’altro, ivi
compreso l’errore, ha necessariamente una sua ragion d’essere, per cui anche il
disordine deve alla fine trovare il suo posto tra gli elementi dell’ordine
universale. Pertanto, anche se il mondo moderno in se stesso rappresenta una
anomalia, o meglio una specie di mostruosità, è altrettanto vero che, situato
nell’insieme del ciclo storico di cui fa parte, esso corrisponde esattamente
alle condizioni di una certa fase di questo ciclo, quella cioè che la
tradizione indù definisce come il periodo estremo del Kali Yuga: sono
queste condizioni, derivanti dall’andamento stesso della manifestazione
ciclica, ad averne determinato i caratteri specifici e, a questo proposito, si
può ben dire che l’epoca attuale non poteva essere diversa da quella che effettivamente
è. Soltanto, è chiaro che per vedere il disordine come un elemento dell’ordine,
o per ricondurre l’errore ad un aspetto parziale e deformato di qualche verità,
bisogna elevarsi al di sopra del livello delle contingenze al cui dominio
appartengono il disordine e l’errore come tali; e parimenti, per cogliere il
vero significato del mondo moderno in conformità alle leggi che regolano lo
sviluppo della presente umanità terrestre, bisogna essersi completamente liberati dalla mentalità che
specificamente lo caratterizza, e non esserne infirmati ad alcun livello; ciò è
tanto più evidente in quanto tale mentalità, per forza di cose e in certo qual
modo per definizione, implica una totale ignoranza delle leggi in questione,
nonché di tutte le altre verità le quali, derivando in modo più o meno diretto
dai principi trascendenti, sono parte essenziale di quella conoscenza
tradizionale di cui tutte le concezioni propriamente moderne, consciamente o
inconsciamente, non sono che la negazione pura e semplice..... ....Contro questo genere di cose nulla può la
fretta febbrile che i nostri contemporanei apportano a tutte le loro azioni;
tale fretta, anzi, non può che produrre agitazione e disordine, cioè effetti
del tutto negativi; del resto, si potrebbe forse ancora definirli «moderni» se
fossero in grado di capire i vantaggi che si hanno a seguire le indicazioni
fornite da quelle circostanze, le quali, ben lungi dall’essere «fortuite» come
essi immaginano nella loro ignoranza, sono invece espressioni più o meno
particolarizzate dell’ordine generale, umano e cosmico ad un tempo, in cui,
volenti o nolenti, tutti dobbiamo integrarci?
Fra i tratti caratteristici della mentalità moderna, e come
argomento centrale del nostro studio, prenderemo subito in esame la tendenza a
ridurre ogni cosa al solo punto di vista quantitativo, tendenza talmente
radicata nelle concezioni «scientifiche» degli ultimi secoli, e reperibile
d’altronde altrettanto nettamente negli altri campi, come ad esempio quello
dell’organizzazione sociale, da permettere quasi di definire la nostra epoca,
salvo una restrizione la cui natura e necessità appariranno in seguito,
essenzialmente e innanzi tutto come il «regno della quantità». Se adottiamo questa
caratteristica a preferenza di qualsiasi altra non è tanto o principalmente
perché sia più visibile o meno contestabile, ma perché ci appare come veramente
fondamentale, dato che tale riduzione al quantitativo traduce rigorosamente le
condizioni della fase ciclica raggiunta dall’umanità nei tempi moderni, e perché la tendenza in questione
dopo tutto conduce logicamente al punto d’arrivo di quella «discesa»
effettuantesi, a velocità sempre più accelerata, dall’inizio alla fine di un Manvantara,
cioè nel corso di tutta la manifestazione di una umanità come la nostra. Tale
«discesa», come abbiamo già avuto occasione di affermare, non è altro che il
graduale allontanamento dal principio, necessariamente inerente ad ogni
processo di manifestazione; in virtù delle condizioni speciali di esistenza cui
il nostro mondo deve sottostare, il punto più basso riveste l’aspetto della
quantità pura priva di qualsiasi distinzione qualitativa; è ovvio che si tratta
esclusivamente di un limite, e che quindi si può parlare solo di «tendenza»,
poiché nello svolgimento del ciclo tale limite non può assolutamente essere
raggiunto, trovandosi in qualche modo al di fuori e al di sotto di qualsiasi
esistenza realizzata o realizzabile.
Orbene, al fine di evitare equivoci, e per rendersi conto di
ciò che può dar luogo a certe illusioni, occorre fin dall’inizio sottolineare
che, in virtù della legge di analogia, il punto più basso è come un riflesso
oscuro o un’immagine invertita del punto più alto; ne deriva la conseguenza,
paradossale solo in apparenza, che l’assenza più completa di qualsiasi
principio implica una specie di «contraffazione» del principio stesso, espressa
da taluni in forma teologica con l’affermazione: «Satana è la scimmia di Dio».
Questa osservazione può essere di grande aiuto per capire alcuni dei più oscuri
enigmi del mondo moderno, enigmi non riconosciuti come tali perché nemmeno
avvertiti, quantunque insiti in esso, e la cui negazione costituisce una
condizione indispensabile del mantenimento di quella specifica mentalità che
condiziona la sua esistenza. Se i nostri contemporanei riuscissero, nel loro
insieme, a vedere che cosa li dirige, e verso che cosa realmente tendono, il
mondo moderno cesserebbe immediatamente di esistere come tale, in quanto quel
«raddrizzamento», cui spesso abbiamo fatto allusione, non mancherebbe di
operarsi per questo solo fatto; ma poiché tale «raddrizzamento» presuppone che
si sia giunti al punto d’arresto in cui la «discesa» è interamente compiuta, e
in cui «la ruota cessa di girare» (almeno in quell’istante che segna il
passaggio da un ciclo ad un altro), bisogna concludere che, fin quando questo
punto non sarà effettivamente raggiunto, queste cose non potranno essere
comprese dalla maggioranza della gente, ma soltanto dall’esiguo numero di
coloro che saranno destinati, in una misura o in un’altra, a preparare i germi
del ciclo futuro. Non è nemmeno il caso di dire che, per tutto quanto andiamo
esponendo, è sempre esclusivamente a questi ultimi che abbiamo inteso rivolgerci,
senza preoccuparci dell’inevitabile incomprensione degli altri; è vero che
questi altri, ancora per un certo tempo, sono e
devono essere la stragrande maggioranza, ma è appunto nel «regno della
quantità» che l’opinione della maggioranza può pretendere di esser presa in
considerazione.
Comunque sia, vogliamo soprattutto, per il momento e in primo
luogo, applicare la precedente osservazione ad un campo più ristretto di quello
già considerato; e ciò allo scopo, per esempio, di impedire qualsiasi
confusione tra il punto di vista della scienza tradizionale e quello della
scienza profana, anche quando certe somiglianze esterne sembrano prestarvisi.
Tali somiglianze, in effetti, spesso non provengono che da corrispondenze
invertite, e mentre la scienza tradizionale prende essenzialmente in
considerazione il termine superiore, accordando al termine inferiore soltanto
il valore relativo che gli è dato dalla sua corrispondenza con quel termine
superiore, la scienza profana, al contrario, considera il solo termine
inferiore e, incapace com’è di oltrepassare i confini del campo cui esso
appartiene, ha la pretesa di ridurre ad esso tutta la realtà. Così, per dare un
esempio che si riferisce direttamente al nostro argomento, i numeri pitagorici,
considerati come i principi delle cose, non sono affatto i numeri quali i
moderni, matematici o fisici, li intendono, non più di quanto l’immutabilità
principiale sia paragonabile all’immobilità di una pietra, o l’unità vera
all’uniformità di esseri privi di ogni qualità propria; e ciò nonostante,
trattandosi di numeri in tutte e due i casi, i fautori di una scienza
esclusivamente quantitativa non hanno mancato di annoverare i Pitagorici fra i
loro «precursori»! Aggiungeremo solo, per non anticipare troppo sugli sviluppi
che intendiamo dare all’argomento, che questa – e già lo abbiamo detto altrove
– è una ulteriore dimostrazione di come le scienze profane, di cui il mondo
moderno è così orgoglioso, altro non siano se non «residui» degenerati di
antiche scienze tradizionali, così come la stessa quantità, a cui esse si
sforzano di tutto ricondurre, non è, nella loro visione delle cose, se non il
«residuo» di un’esistenza svuotata di tutto ciò che costituiva la sua essenza;
è così che queste scienze, o pretese tali, lasciandosi sfuggire, oppure
eliminando di proposito tutto ciò che veramente è essenziale, si rivelano in
definitiva incapaci di fornire la spiegazione reale di qualsiasi cosa.
Allo stesso modo che la scienza tradizionale dei numeri è
tutt’altra cosa dall’aritmetica profana dei moderni, sia pure con tutte le
estensioni algebriche o d’altro genere di cui è suscettibile, così esiste anche
una «geometria sacra» non meno profondamente diversa da quella scienza
«scolastica», che oggi si designa con lo stesso nome di geometria. Non è il
caso di insistere oltre su queste cose, in quanto tutti coloro che hanno letto
le nostre opere precedenti sanno che in
esse, e specialmente nel Symbolisme de la Croix [Paris, 1931],1
abbiamo esposto numerose considerazioni derivate dalla geometria simbolica in
questione, ed hanno potuto rendersi conto fino a che punto essa si presti alla
rappresentazione di realtà d’ordine superiore, almeno nella misura in cui
queste sono suscettibili di essere rappresentate in modo sensibile; e in fondo,
non è forse vero che le forme geometriche sono necessariamente la base stessa
di qualsiasi simbolismo figurato o «grafico», a cominciare dai caratteri
alfabetici e numerici di tutte le lingue fino a quello degli yantra
iniziatici in apparenza più complessi e più strani? È facile capire come tale
simbolismo possa dar luogo ad una molteplicità indefinita di applicazioni; ed è
però altrettanto evidente che una geometria del genere, ben lungi
dall’applicarsi soltanto alla pura quantità, è al contrario essenzialmente
«qualitativa»; e lo stesso possiamo affermare della vera scienza dei numeri, in
quanto i numeri principiali, se così possiamo chiamarli per analogia, sono per
così dire al polo opposto, in rapporto al nostro mondo, a quello ove si situano
i numeri dell’aritmetica volgare, i soli conosciuti dai moderni, i quali
esclusivamente ad essi rivolgono la loro attenzione, prendendo così l’ombra per
la realtà vera, allo stesso modo dei prigionieri della caverna di Platone.
In questo studio, cercheremo di far vedere in modo ancor più
completo, e da un punto di vista più generale, quale sia la vera natura delle
scienze tradizionali, e per conseguenza quale abisso le separi dalle scienze
profane che ne sono come una caricatura ed una parodia; ciò permetterà di
valutare la decadenza subita dalla mentalità umana nel passare dalle prime alle
seconde, nonché di vedere, in rapporto alla situazione rispettiva dell’oggetto
dei loro studi, come questa decadenza segua appunto strettamente la marcia
discendente del ciclo percorso dalla nostra umanità. È fuor di dubbio che non
si può avere la pretesa di sviscerare del tutto questioni siffatte, in quanto,
per loro natura, veramente inesauribili; cercheremo però di dirne abbastanza da
permettere a ciascuno di trarne le conclusioni che si impongono, per quanto
riguarda la determinazione del «momento cosmico» cui l’epoca attuale
corrisponde. Se nonostante tutto qualcuno troverà certe considerazioni forse un
po’ oscure, è soltanto perché queste sono troppo lontane dalle sue abitudini
mentali, troppo estranee a tutto ciò che gli è stato inculcato dall’educazione
ricevuta e dall’ambiente in cui vive; in tal caso non possiamo farci niente, in
quanto vi sono cose per le quali il solo modo possibile d’espressione è quello
simbolico, e che, per conseguenza, resteranno incomprensibili a coloro per cui il simbolismo è
lettera morta. Peraltro vogliamo ricordare che tale modo di espressione è
l’indispensabile veicolo di qualsiasi insegnamento d’ordine iniziatico; ma,
anche a lasciar da parte il mondo profano, la cui incomprensione è evidente ed
in certo qual modo naturale, basta soffermarsi sulle vestigia di iniziazioni
che ancora sussistono in Occidente per rendersi conto come certa gente, priva
di «qualificazione» intellettuale, tratti i simboli proposti alla sua
meditazione, e per essere assolutamente sicuri che essi, qualsiasi titolo
rivestano o qualsiasi grado iniziatico abbiano «virtualmente» ottenuto, non
riusciranno mai a penetrare il vero significato anche solo di un minimo
frammento della geometria misteriosa dei «Grandi Architetti d’Oriente e
d’Occidente» !
Poiché abbiamo fatto allusione all’Occidente, un’altra
osservazione si rende necessaria: quale che sia l’estensione raggiunta,
soprattutto in questi ultimi anni, da quello stato d’animo da noi chiamato
specificamente «moderno», e quale ne sia la presa, anche se almeno
esteriormente sempre maggiore sul mondo intero, tale stato d’animo rimane
tuttavia occidentale quanto alla sua origine: è appunto in Occidente che ha
avuto i natali e in cui ormai da tempo è dominatore incontrastato, mentre in
Oriente la sua influenza non potrà mai essere altro che una questione di
«occidentalizzazione». Per quanto lontano possa estendersi quest’influenza, nel
succedersi degli avvenimenti che ancora si svolgeranno, non la si potrà mai
opporre alla differenza, come l’abbiamo descritta, fra spirito orientale e
spirito occidentale, perché questa, per noi, è tutt’uno con quella fra spirito
tradizionale e spirito moderno; ed è fin troppo evidente che nella misura in
cui un uomo si «occidentalizza», quali che siano la sua razza e il suo paese
d’origine, egli cessa perciò stesso di essere spiritualmente e
intellettualmente un orientale, e quindi di rientrare nel solo punto di vista
che in realtà ci interessi. Questa non è una semplice questione «geografica», a
meno che non la si intenda in modo del tutto diverso dai moderni, cioè nel
senso della geografia simbolica; e, a questo proposito, l’attuale preponderanza
occidentale presenta appunto una corrispondenza molto significativa con la fine
di un ciclo, poiché l’Occidente è proprio il punto in cui il sole tramonta, dove
esso arriva al termine del suo percorso diurno, e dove, secondo la simbologia
cinese, «il frutto maturo cade ai piedi dell’albero». Quanto ai mezzi mediante
i quali l’Occidente è giunto ad affermare questa dominazione (di cui la
«modernizzazione» di una parte più o meno considerevole di Orientali non è che
l’ultima e più pesante conseguenza), basta riportarsi a quanto ne abbiamo detto
in altre opere per convincersi che, in definitiva, essi si basano
esclusivamente sulla forza materiale, il che, in altri
termini, equivale a dire che la dominazione occidentale non è altro essa stessa
che un’espressione del «regno della quantità».
Da qualunque lato si prendano in esame le cose, si è sempre
ricondotti alle stesse considerazioni, e le si vede verificarsi costantemente
in tutte le applicazioni che se ne possono fare, cosa di cui del resto non c’è
da stupirsi in quanto la verità è necessariamente coerente; si badi, non
abbiamo detto «sistematica», contrariamente a ciò che potrebbero ben volentieri
supporre i filosofi e gli scienziati profani racchiusi come sono da quelle
concezioni strettamente limitate cui propriamente conviene la denominazione di
«sistemi»; tali concezioni, le quali non traducano in fondo se non
l’insufficienza di mentalità individuali lasciate a se stesse, quand’anche tali
mentalità fossero di quelle che si è convenuto chiamare da «uomini di genio»,
le cui speculazioni, sia pure le più vantate, non valgono certo la conoscenza
della minima verità tradizionale. Anche su questo punto ci siamo dilungati
abbastanza quando abbiamo dovuto denunciare i misfatti dell’«individualismo»,
altra caratteristica dello spirito moderno; ma qui aggiungeremo che la falsa
unità dell’individuo, concepito come un tutto completo in se stesso, corrisponde,
nell’ordine umano, a quella del preteso «atomo» nell’ordine cosmico; entrambi
sono elementi considerati «semplici» da un punto di vista quantitativo, e, come
tali, supposti suscettibili d’una specie di ripetizione indefinita, la quale è
un’impossibilità vera e propria, perché essenzialmente incompatibile con la
natura stessa delle cose; questa ripetizione indefinita, in effetti, non è
altro che la molteplicità pura verso la quale il mondo attuale tende con tutte
le sue forze, senza peraltro mai poter giungere a perdervisi interamente, in
quanto essa si trova ad un livello inferiore a qualsiasi esistenza manifestata,
e rappresenta l’estremo opposto dell’unità principiale. È comunque opportuno
vedere il movimento di discesa ciclica come effettuantesi fra questi due poli:
a partire dall’unità, o piuttosto dal punto ad essa più vicino nell’ambito
della manifestazione relativamente allo stato d’esistenza considerato, si va
sempre più verso la molteplicità, intesa quest’ultima analiticamente e senza
rapportarla ad alcun principio, perché è ovvio che nell’ordine principiale ogni
molteplicità è compresa sinteticamente nell’unità stessa. Può sembrare che in
un certo senso vi sia molteplicità ai due punti estremi, così come, secondo
quanto abbiamo detto, vi sono anche correlativamente l’unità da un lato e le
«unità» dall’altro; ma anche qui si può applicare rigorosamente la nozione
dell’analogia inversa, e mentre la molteplicità principiale è contenuta nella
vera unità metafisica, le «unità» aritmetiche o quantitative sono al contrario
contenute
nell’altra molteplicità, quella
inferiore; per inciso, il fatto solo di poter parlare di «unità» al plurale,
non dimostra già a sufficienza quanto ciò sia lontano dalla vera unità? La
molteplicità inferiore, per definizione, è puramente quantitativa, anzi, si
potrebbe dire che è la quantità stessa separata da ogni qualità; per contro, la
molteplicità superiore, o ciò che chiamiamo così per analogia, è in realtà una
molteplicità qualitativa, in altre parole, l’insieme delle qualità o degli
attributi che costituiscono l’essenza degli esseri e delle cose. Si può quindi
affermare che la discesa di cui abbiamo parlato si effettua dalla qualità pura
alla quantità pura, entrambe rappresentando però dei limiti esteriori alla
manifestazione, l’uno al di là e l’altro al di qua di questa, perché esse, in
rapporto alle condizioni speciali del nostro mondo o del nostro stato di
esistenza, sono un’espressione dei due principi universali da noi designati
altrove rispettivamente come «essenza» e «sostanza», i due poli fra i quali si
produce ogni manifestazione. E in primo luogo ci accingiamo a spiegare più a
fondo questo punto perché per suo tramite si potranno meglio capire le altre
considerazioni che svilupperemo nel corso del presente studio.