domenica 15 marzo 2015

Quantità vs Qualità (René Guénon ne Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi

Da quando scrivemmo La crise du monde moderne [Paris, 1927] gli avvenimenti non hanno fatto che confermare in pieno e fin troppo rapidamente tutti i punti di vista che allora avevamo esposto a questo proposito, benché ne avessimo parlato astraendoci da ogni preoccupazione di «attualità» immediata, come pure da qualsiasi intenzione di «critica» vana e sterile. È ovvio, in effetti, che considerazioni di questo genere sono valide per noi solo in quanto rappresentano un’applicazione dei principi a circostanze particolari; e facciamo notare per inciso che, se in generale coloro i quali hanno dato il giudizio più corretto sugli errori e le insufficienze proprie della mentalità della nostra epoca si sono limitati ad un atteggiamento del tutto negativo – salvo a scostarsene per proporre rimedi pressoché insignificanti e comunque incapace di arginare il disordine crescente in tutti i campi –, ciò è dovuto al loro disconoscimento dei principi veri, disconoscimento non diverso da quello di chi, al contrario, si ostina ad ammirare il preteso «progresso», nonché ad illudersi sul suo inevitabile risultato.
Del resto, anche da un punto di vista del tutto disinteressato e «teorico», non basta denunciare degli errori e mettere in evidenza la loro realtà: questo può essere utile ma quel che è veramente interessante ed istruttivo è spiegarli, cioè ricercare come e perché si sono verificati, in quanto tutto ciò che esiste in un modo o nell’altro, ivi compreso l’errore, ha necessariamente una sua ragion d’essere, per cui anche il disordine deve alla fine trovare il suo posto tra gli elementi dell’ordine universale. Pertanto, anche se il mondo moderno in se stesso rappresenta una anomalia, o meglio una specie di mostruosità, è altrettanto vero che, situato nell’insieme del ciclo storico di cui fa parte, esso corrisponde esattamente alle condizioni di una certa fase di questo ciclo, quella cioè che la tradizione indù definisce come il periodo estremo del Kali Yuga: sono queste condizioni, derivanti dall’andamento stesso della manifestazione ciclica, ad averne determinato i caratteri specifici e, a questo proposito, si può ben dire che l’epoca attuale non poteva essere diversa da quella che effettivamente è. Soltanto, è chiaro che per vedere il disordine come un elemento dell’ordine, o per ricondurre l’errore ad un aspetto parziale e deformato di qualche verità, bisogna elevarsi al di sopra del livello delle contingenze al cui dominio appartengono il disordine e l’errore come tali; e parimenti, per cogliere il vero significato del mondo moderno in conformità alle leggi che regolano lo sviluppo della presente umanità terrestre, bisogna essersi completamente liberati dalla mentalità che specificamente lo caratterizza, e non esserne infirmati ad alcun livello; ciò è tanto più evidente in quanto tale mentalità, per forza di cose e in certo qual modo per definizione, implica una totale ignoranza delle leggi in questione, nonché di tutte le altre verità le quali, derivando in modo più o meno diretto dai principi trascendenti, sono parte essenziale di quella conoscenza tradizionale di cui tutte le concezioni propriamente moderne, consciamente o inconsciamente, non sono che la negazione pura e semplice..... ....Contro questo genere di cose nulla può la fretta febbrile che i nostri contemporanei apportano a tutte le loro azioni; tale fretta, anzi, non può che produrre agitazione e disordine, cioè effetti del tutto negativi; del resto, si potrebbe forse ancora definirli «moderni» se fossero in grado di capire i vantaggi che si hanno a seguire le indicazioni fornite da quelle circostanze, le quali, ben lungi dall’essere «fortuite» come essi immaginano nella loro ignoranza, sono invece espressioni più o meno particolarizzate dell’ordine generale, umano e cosmico ad un tempo, in cui, volenti o nolenti, tutti dobbiamo integrarci?
Fra i tratti caratteristici della mentalità moderna, e come argomento centrale del nostro studio, prenderemo subito in esame la tendenza a ridurre ogni cosa al solo punto di vista quantitativo, tendenza talmente radicata nelle concezioni «scientifiche» degli ultimi secoli, e reperibile d’altronde altrettanto nettamente negli altri campi, come ad esempio quello dell’organizzazione sociale, da permettere quasi di definire la nostra epoca, salvo una restrizione la cui natura e necessità appariranno in seguito, essenzialmente e innanzi tutto come il «regno della quantità». Se adottiamo questa caratteristica a preferenza di qualsiasi altra non è tanto o principalmente perché sia più visibile o meno contestabile, ma perché ci appare come veramente fondamentale, dato che tale riduzione al quantitativo traduce rigorosamente le condizioni della fase ciclica raggiunta dall’umanità nei tempi moderni, e perché la tendenza in questione dopo tutto conduce logicamente al punto d’arrivo di quella «discesa» effettuantesi, a velocità sempre più accelerata, dall’inizio alla fine di un Manvantara, cioè nel corso di tutta la manifestazione di una umanità come la nostra. Tale «discesa», come abbiamo già avuto occasione di affermare, non è altro che il graduale allontanamento dal principio, necessariamente inerente ad ogni processo di manifestazione; in virtù delle condizioni speciali di esistenza cui il nostro mondo deve sottostare, il punto più basso riveste l’aspetto della quantità pura priva di qualsiasi distinzione qualitativa; è ovvio che si tratta esclusivamente di un limite, e che quindi si può parlare solo di «tendenza», poiché nello svolgimento del ciclo tale limite non può assolutamente essere raggiunto, trovandosi in qualche modo al di fuori e al di sotto di qualsiasi esistenza realizzata o realizzabile.
Orbene, al fine di evitare equivoci, e per rendersi conto di ciò che può dar luogo a certe illusioni, occorre fin dall’inizio sottolineare che, in virtù della legge di analogia, il punto più basso è come un riflesso oscuro o un’immagine invertita del punto più alto; ne deriva la conseguenza, paradossale solo in apparenza, che l’assenza più completa di qualsiasi principio implica una specie di «contraffazione» del principio stesso, espressa da taluni in forma teologica con l’affermazione: «Satana è la scimmia di Dio». Questa osservazione può essere di grande aiuto per capire alcuni dei più oscuri enigmi del mondo moderno, enigmi non riconosciuti come tali perché nemmeno avvertiti, quantunque insiti in esso, e la cui negazione costituisce una condizione indispensabile del mantenimento di quella specifica mentalità che condiziona la sua esistenza. Se i nostri contemporanei riuscissero, nel loro insieme, a vedere che cosa li dirige, e verso che cosa realmente tendono, il mondo moderno cesserebbe immediatamente di esistere come tale, in quanto quel «raddrizzamento», cui spesso abbiamo fatto allusione, non mancherebbe di operarsi per questo solo fatto; ma poiché tale «raddrizzamento» presuppone che si sia giunti al punto d’arresto in cui la «discesa» è interamente compiuta, e in cui «la ruota cessa di girare» (almeno in quell’istante che segna il passaggio da un ciclo ad un altro), bisogna concludere che, fin quando questo punto non sarà effettivamente raggiunto, queste cose non potranno essere comprese dalla maggioranza della gente, ma soltanto dall’esiguo numero di coloro che saranno destinati, in una misura o in un’altra, a preparare i germi del ciclo futuro. Non è nemmeno il caso di dire che, per tutto quanto andiamo esponendo, è sempre esclusivamente a questi ultimi che abbiamo inteso rivolgerci, senza preoccuparci dell’inevitabile incomprensione degli altri; è vero che questi altri, ancora per un certo tempo, sono e devono essere la stragrande maggioranza, ma è appunto nel «regno della quantità» che l’opinione della maggioranza può pretendere di esser presa in considerazione.
Comunque sia, vogliamo soprattutto, per il momento e in primo luogo, applicare la precedente osservazione ad un campo più ristretto di quello già considerato; e ciò allo scopo, per esempio, di impedire qualsiasi confusione tra il punto di vista della scienza tradizionale e quello della scienza profana, anche quando certe somiglianze esterne sembrano prestarvisi. Tali somiglianze, in effetti, spesso non provengono che da corrispondenze invertite, e mentre la scienza tradizionale prende essenzialmente in considerazione il termine superiore, accordando al termine inferiore soltanto il valore relativo che gli è dato dalla sua corrispondenza con quel termine superiore, la scienza profana, al contrario, considera il solo termine inferiore e, incapace com’è di oltrepassare i confini del campo cui esso appartiene, ha la pretesa di ridurre ad esso tutta la realtà. Così, per dare un esempio che si riferisce direttamente al nostro argomento, i numeri pitagorici, considerati come i principi delle cose, non sono affatto i numeri quali i moderni, matematici o fisici, li intendono, non più di quanto l’immutabilità principiale sia paragonabile all’immobilità di una pietra, o l’unità vera all’uniformità di esseri privi di ogni qualità propria; e ciò nonostante, trattandosi di numeri in tutte e due i casi, i fautori di una scienza esclusivamente quantitativa non hanno mancato di annoverare i Pitagorici fra i loro «precursori»! Aggiungeremo solo, per non anticipare troppo sugli sviluppi che intendiamo dare all’argomento, che questa – e già lo abbiamo detto altrove – è una ulteriore dimostrazione di come le scienze profane, di cui il mondo moderno è così orgoglioso, altro non siano se non «residui» degenerati di antiche scienze tradizionali, così come la stessa quantità, a cui esse si sforzano di tutto ricondurre, non è, nella loro visione delle cose, se non il «residuo» di un’esistenza svuotata di tutto ciò che costituiva la sua essenza; è così che queste scienze, o pretese tali, lasciandosi sfuggire, oppure eliminando di proposito tutto ciò che veramente è essenziale, si rivelano in definitiva incapaci di fornire la spiegazione reale di qualsiasi cosa.
Allo stesso modo che la scienza tradizionale dei numeri è tutt’altra cosa dall’aritmetica profana dei moderni, sia pure con tutte le estensioni algebriche o d’altro genere di cui è suscettibile, così esiste anche una «geometria sacra» non meno profondamente diversa da quella scienza «scolastica», che oggi si designa con lo stesso nome di geometria. Non è il caso di insistere oltre su queste cose, in quanto tutti coloro che hanno letto le nostre opere precedenti sanno che in esse, e specialmente nel Symbolisme de la Croix [Paris, 1931],1 abbiamo esposto numerose considerazioni derivate dalla geometria simbolica in questione, ed hanno potuto rendersi conto fino a che punto essa si presti alla rappresentazione di realtà d’ordine superiore, almeno nella misura in cui queste sono suscettibili di essere rappresentate in modo sensibile; e in fondo, non è forse vero che le forme geometriche sono necessariamente la base stessa di qualsiasi simbolismo figurato o «grafico», a cominciare dai caratteri alfabetici e numerici di tutte le lingue fino a quello degli yantra iniziatici in apparenza più complessi e più strani? È facile capire come tale simbolismo possa dar luogo ad una molteplicità indefinita di applicazioni; ed è però altrettanto evidente che una geometria del genere, ben lungi dall’applicarsi soltanto alla pura quantità, è al contrario essenzialmente «qualitativa»; e lo stesso possiamo affermare della vera scienza dei numeri, in quanto i numeri principiali, se così possiamo chiamarli per analogia, sono per così dire al polo opposto, in rapporto al nostro mondo, a quello ove si situano i numeri dell’aritmetica volgare, i soli conosciuti dai moderni, i quali esclusivamente ad essi rivolgono la loro attenzione, prendendo così l’ombra per la realtà vera, allo stesso modo dei prigionieri della caverna di Platone.
In questo studio, cercheremo di far vedere in modo ancor più completo, e da un punto di vista più generale, quale sia la vera natura delle scienze tradizionali, e per conseguenza quale abisso le separi dalle scienze profane che ne sono come una caricatura ed una parodia; ciò permetterà di valutare la decadenza subita dalla mentalità umana nel passare dalle prime alle seconde, nonché di vedere, in rapporto alla situazione rispettiva dell’oggetto dei loro studi, come questa decadenza segua appunto strettamente la marcia discendente del ciclo percorso dalla nostra umanità. È fuor di dubbio che non si può avere la pretesa di sviscerare del tutto questioni siffatte, in quanto, per loro natura, veramente inesauribili; cercheremo però di dirne abbastanza da permettere a ciascuno di trarne le conclusioni che si impongono, per quanto riguarda la determinazione del «momento cosmico» cui l’epoca attuale corrisponde. Se nonostante tutto qualcuno troverà certe considerazioni forse un po’ oscure, è soltanto perché queste sono troppo lontane dalle sue abitudini mentali, troppo estranee a tutto ciò che gli è stato inculcato dall’educazione ricevuta e dall’ambiente in cui vive; in tal caso non possiamo farci niente, in quanto vi sono cose per le quali il solo modo possibile d’espressione è quello simbolico, e che, per conseguenza, resteranno incomprensibili a coloro per cui il simbolismo è lettera morta. Peraltro vogliamo ricordare che tale modo di espressione è l’indispensabile veicolo di qualsiasi insegnamento d’ordine iniziatico; ma, anche a lasciar da parte il mondo profano, la cui incomprensione è evidente ed in certo qual modo naturale, basta soffermarsi sulle vestigia di iniziazioni che ancora sussistono in Occidente per rendersi conto come certa gente, priva di «qualificazione» intellettuale, tratti i simboli proposti alla sua meditazione, e per essere assolutamente sicuri che essi, qualsiasi titolo rivestano o qualsiasi grado iniziatico abbiano «virtualmente» ottenuto, non riusciranno mai a penetrare il vero significato anche solo di un minimo frammento della geometria misteriosa dei «Grandi Architetti d’Oriente e d’Occidente» !
Poiché abbiamo fatto allusione all’Occidente, un’altra osservazione si rende necessaria: quale che sia l’estensione raggiunta, soprattutto in questi ultimi anni, da quello stato d’animo da noi chiamato specificamente «moderno», e quale ne sia la presa, anche se almeno esteriormente sempre maggiore sul mondo intero, tale stato d’animo rimane tuttavia occidentale quanto alla sua origine: è appunto in Occidente che ha avuto i natali e in cui ormai da tempo è dominatore incontrastato, mentre in Oriente la sua influenza non potrà mai essere altro che una questione di «occidentalizzazione». Per quanto lontano possa estendersi quest’influenza, nel succedersi degli avvenimenti che ancora si svolgeranno, non la si potrà mai opporre alla differenza, come l’abbiamo descritta, fra spirito orientale e spirito occidentale, perché questa, per noi, è tutt’uno con quella fra spirito tradizionale e spirito moderno; ed è fin troppo evidente che nella misura in cui un uomo si «occidentalizza», quali che siano la sua razza e il suo paese d’origine, egli cessa perciò stesso di essere spiritualmente e intellettualmente un orientale, e quindi di rientrare nel solo punto di vista che in realtà ci interessi. Questa non è una semplice questione «geografica», a meno che non la si intenda in modo del tutto diverso dai moderni, cioè nel senso della geografia simbolica; e, a questo proposito, l’attuale preponderanza occidentale presenta appunto una corrispondenza molto significativa con la fine di un ciclo, poiché l’Occidente è proprio il punto in cui il sole tramonta, dove esso arriva al termine del suo percorso diurno, e dove, secondo la simbologia cinese, «il frutto maturo cade ai piedi dell’albero». Quanto ai mezzi mediante i quali l’Occidente è giunto ad affermare questa dominazione (di cui la «modernizzazione» di una parte più o meno considerevole di Orientali non è che l’ultima e più pesante conseguenza), basta riportarsi a quanto ne abbiamo detto in altre opere per convincersi che, in definitiva, essi si basano esclusivamente sulla forza materiale, il che, in altri termini, equivale a dire che la dominazione occidentale non è altro essa stessa che un’espressione del «regno della quantità».
Da qualunque lato si prendano in esame le cose, si è sempre ricondotti alle stesse considerazioni, e le si vede verificarsi costantemente in tutte le applicazioni che se ne possono fare, cosa di cui del resto non c’è da stupirsi in quanto la verità è necessariamente coerente; si badi, non abbiamo detto «sistematica», contrariamente a ciò che potrebbero ben volentieri supporre i filosofi e gli scienziati profani racchiusi come sono da quelle concezioni strettamente limitate cui propriamente conviene la denominazione di «sistemi»; tali concezioni, le quali non traducano in fondo se non l’insufficienza di mentalità individuali lasciate a se stesse, quand’anche tali mentalità fossero di quelle che si è convenuto chiamare da «uomini di genio», le cui speculazioni, sia pure le più vantate, non valgono certo la conoscenza della minima verità tradizionale. Anche su questo punto ci siamo dilungati abbastanza quando abbiamo dovuto denunciare i misfatti dell’«individualismo», altra caratteristica dello spirito moderno; ma qui aggiungeremo che la falsa unità dell’individuo, concepito come un tutto completo in se stesso, corrisponde, nell’ordine umano, a quella del preteso «atomo» nell’ordine cosmico; entrambi sono elementi considerati «semplici» da un punto di vista quantitativo, e, come tali, supposti suscettibili d’una specie di ripetizione indefinita, la quale è un’impossibilità vera e propria, perché essenzialmente incompatibile con la natura stessa delle cose; questa ripetizione indefinita, in effetti, non è altro che la molteplicità pura verso la quale il mondo attuale tende con tutte le sue forze, senza peraltro mai poter giungere a perdervisi interamente, in quanto essa si trova ad un livello inferiore a qualsiasi esistenza manifestata, e rappresenta l’estremo opposto dell’unità principiale. È comunque opportuno vedere il movimento di discesa ciclica come effettuantesi fra questi due poli: a partire dall’unità, o piuttosto dal punto ad essa più vicino nell’ambito della manifestazione relativamente allo stato d’esistenza considerato, si va sempre più verso la molteplicità, intesa quest’ultima analiticamente e senza rapportarla ad alcun principio, perché è ovvio che nell’ordine principiale ogni molteplicità è compresa sinteticamente nell’unità stessa. Può sembrare che in un certo senso vi sia molteplicità ai due punti estremi, così come, secondo quanto abbiamo detto, vi sono anche correlativamente l’unità da un lato e le «unità» dall’altro; ma anche qui si può applicare rigorosamente la nozione dell’analogia inversa, e mentre la molteplicità principiale è contenuta nella vera unità metafisica, le «unità» aritmetiche o quantitative sono al contrario contenute
nell’altra molteplicità, quella inferiore; per inciso, il fatto solo di poter parlare di «unità» al plurale, non dimostra già a sufficienza quanto ciò sia lontano dalla vera unità? La molteplicità inferiore, per definizione, è puramente quantitativa, anzi, si potrebbe dire che è la quantità stessa separata da ogni qualità; per contro, la molteplicità superiore, o ciò che chiamiamo così per analogia, è in realtà una molteplicità qualitativa, in altre parole, l’insieme delle qualità o degli attributi che costituiscono l’essenza degli esseri e delle cose. Si può quindi affermare che la discesa di cui abbiamo parlato si effettua dalla qualità pura alla quantità pura, entrambe rappresentando però dei limiti esteriori alla manifestazione, l’uno al di là e l’altro al di qua di questa, perché esse, in rapporto alle condizioni speciali del nostro mondo o del nostro stato di esistenza, sono un’espressione dei due principi universali da noi designati altrove rispettivamente come «essenza» e «sostanza», i due poli fra i quali si produce ogni manifestazione. E in primo luogo ci accingiamo a spiegare più a fondo questo punto perché per suo tramite si potranno meglio capire le altre considerazioni che svilupperemo nel corso del presente studio.

mercoledì 14 gennaio 2015

La Perfezione (parte 1)

In questa tavola cercheremo di spiegare cosa si intenda per perfezione e quale sia il suo rapporto con la manifestazione e con l’Assoluto.
Il termine “perfetto”, derivato dal participio passato del verbo latino perficere, secondo il dizionario Treccani significa “condotto a termine, portato a compimento, concluso”; relazione analoga, ossia fra ciò che è perfetto e ciò che è finito, si ritrova anche nel greco antico. In quanto aggettivo, perfetto significa “compiuto in tutte le sue parti, completo di tutti gli elementi caratteristici e necessari, giunto al punto estremo del suo sviluppo”. Un passo di Guénon può aiutarci a fare alcune riflessioni utili ai nostri fini: “l'opera la quale, coscientemente o incoscientemente, deriva chiaramente dalla natura di colui che la eseguisce, non darà mai l'impressione di uno sforzo più o meno penoso, comportante sempre qualche imperfezione perché anormale; al contrario, essa trarrà la sua stessa perfezione dalla propria conformità con la natura, ciò che implica il suo esatto adattamento al fine cui è destinata[1]”. Per Guénon, dunque, perfetto è “ciò che realizza in tutto la sua vera natura”. Vale la pena notare inoltre come l’adattamento (esteriore) al fine cui si è destinati sia fase preliminare e indispensabile del lavoro iniz\.


[1] Guénon,“L’iniziazione e i mestieri”, in Mélanges

venerdì 6 giugno 2014

Il Mistero di Dante

Lo scorso 14 febbraio, per San Valentino, è uscito in Italia in piccole sale cinematografiche un film italiano, dal budget limitato, e che purtuttavia nel cast annovera tra gli altri un premio oscar.
Titolo e data di uscita nelle sale non nascondono l'oggetto del film, Dante e i Fedeli d'Amore.
Per quanto il film tenda ad assomigliare più ad un documentario, ci pare un caso più unico che raro nel suo genere.
Non è certo l'unico film/documentario in cui si parli di Dante, o di esoterismo, o di massoneria, o di tassawuf (volgarmente conosciuto come sufismo). Forse però è il primo in cui si nominano queste realtà collegandole fra loro, senza nascondere che per affrontare il tema è stato sfruttato, o almeno questo sembra essere il tentativo di Louis Nero, quanto René Guénon ha chiarito con la sua opera.
Ecco, forse è la prima volta che sul grande schermo si sente nominare, e a più riprese, René Guénon.
Anzi....., se ogni recensione che abbiamo trovato sul film asserisce che Murray Abraham interpreti un alter-ego di Dante, a noi sembra invece che la sua funzione sia quella di interpretare proprio René Guénon. (Un dettaglio che gli ignari critici preoccupati di disquisire sulla qualità del montaggio non hanno colto, è che mentre “l'alter-ego” legge ciò che in contemporanea scrive, non si tratta affatto di Dante, ma di René Guénon ne “L'esoterismo di Dante”. Le prime parole di Murray sono proprio l'incipit dell'opera di Guénon, e la totalità delle sue asserzioni sembra una parafrasi di qualcosa già letto nei libri di Guénon più che in quelli di Dante (per quanto essi possano coincidere nella sostanza). L'arredamento della stanza e l'abito di Murray, a nostro avviso avvalorano tale tesi, e ricordano molto certe foto dello Sheik Abd'l Wahid Yahya.



Certo la selezione degli intervistati lascerebbe pensare che amplissimi margini siano lasciati all'errore, e che dunque Dante e Guénon non avrebbero affatto apprezzato più di una affermazione. Ma daltronde quale altro cast di personaggi più o meno noti (almeno in Italia) avrebbe potuto fare di meglio? Peraltro malgrado certi svarioni, alcuni veramente gravi, ci sembra che nel complesso l'opera possa riuscire nell'intento oltre ogni aspettativa.
Offre infatti, attraverso la voce di svariati personaggi innumerevoli spunti di riflessione, che se lasceranno, come è giusto che sia, del tutto indifferenti i più, potrebbero invece risvegliare in qualcuno qualificato l'interesse ad approfondire e separare il grano dal loglio. E scoprire realtà altrimenti inimmaginabili.
Perdipiù, in svariati ambienti e media, è comune sentire citazioni attribuite a René Guénon del tutto false o falsate, con l'intento solitamente di sfruttare l'autorità di Guénon certi che il proprio pubblico ne abbia sentito parlare e ne abbia una certa reverenza, senza però averne mai letto o tentato di comprendere neanche uno dei testi da lui scritti. O peggio spesso l'intento, e comunque il risultato finale di false citazioni è quello di screditare il lavoro René Guénon, agli occhi di chi, approfondendolo senza intermediari, potrebbe ottenerne importanti chiarificazioni. Al contrario nel film non abbiamo notato tali false attribuzioni, e quando Guénon viene citato espressamente non gli vengono attribuite affermazioni a lui distanti.

Per adesso lasciamo che ognuno si veda il film o (meglio) si studi l'opera di Guénon per approfondire, proveremo ad approfondire successivamente...


A.H.

giovedì 5 giugno 2014

La Caverna Iniziatica (parte 7)

Prendendo lo stato umano come il piano di riferimento che taglia in due questa retta, la sua metà superiore è rappresentata in L dal filo a piombo; questo si proietta come un punto sul pavimento a scacchi, simbolo della dualità che caratterizza l’esistenza umana; il filo a piombo cade dunque al centro del piano umano, situato in questo caso sul quadro di loggia..
L’accostamento tra caverna e cuore a cui si è già accennato ci spinge a cercare altre corrispondenze all’interno del rituale: il grado di compagno in effetti sembra presentare simboli specifici; si pensi ad esempio al suo stare all’ordine con una mano sul cuore. Se la consegna dell’apprendista era di imparare a mantenere il silenzio, al fine di imparare a eliminare le parti in eccesso del proprio carattere, per il compagno il lavoro si fa più raffinato; egli deve levigare a perfezione la pietra, con lo stesso fine descritto all’inizio del Mathnawi di Rumi: “Sai perché lo specchio della tua anima non riflette più nulla? Perché dalla sua superficie non è stata tolta la ruggine” Vediamo dunque accostato il simbolo della levigatura della superficie e il simbolo luminoso, rappresentato nel grado di Compagno dalla stella fiammeggiante con la lettera G al suo centro.

La lettera G entro la stella fiammeggiante, al cui centro si trova questo punto, sembra quasi ricordare allora un cerchio non chiuso, un movimento a spirale che va a convergere sul punto. E lo stesso movimento a spirale è suggerito dal fatto che la sequenza generata di pentagoni e di stelle ruota di 180° a ogni iterazione.
Tale considerazione, basata sull’aspetto grafico della lettera G, sia presa con la dovuta prudenza se, come afferma Guénon, essa è in realtà derivata dallo iod del tetragramma ebraico, trasformato per l’assonanza con il termine inglese God. Ma anche in questo caso, lo iod è simbolo del centro in quanto iniziale del nome divino; il simbolo si fa anzi più preciso. Tornando al nostro discorso iniziale, la lettera G rappresenta il punto con cui l’iniziato, nel centro della caverna, si identificherà. In esso la luce scenderà quando la pietra sarà ben levigata, e da esso la luce scaturisce: è una luce che per il cosmo sembrerà avere origine in se stessa. Esso è il punto attraverso cui l’iniziato uscirà dalla caverna.

M.

domenica 25 maggio 2014

La caverna iniziatica (parte 6)

Il profano che entra per la prima volta in loggia, lo fa passando per un'apertura molto bassa, come si trattasse dell’ingresso di una grotta. O forse, si potrebbe ipotizzare, tale passaggio è da considerarsi un’uscita dalla caverna, anziché un ingresso? In ogni caso, di passaggio si tratta; così la morte è il passaggio a uno stato successivo, rispetto al quale tale passaggio è visto come nascita.

Guénon fa un’osservazione utile ai fini del discorso sul gabinetto di riflessione, riferendosi al viaggio di Dante attraverso l’Inferno: “questa discesa è come una ricapitolazione degli stati che precedono logicamente lo stato umano, che ne hanno determinato le condizioni particolari, e che debbono anche partecipare alla «trasformazione» che si compie; d’altra parte, essa permette la manifestazione, secondo certe modalità, delle pos­sibilità di ordine inferiore che l’essere porta ancora in sé allo stato non-sviluppato, e che debbono essere esaurite da lui prima che gli sia possibile di pervenire alla realiz­zazione dei suoi stati superiori”. Anche il gabinetto di riflessione è quindi un viaggio iniziatico, assimilabile al labirinto di cui abbiamo parlato. E analogamente a Dante, i massoni si propongono di scavare oscure carceri al vizio e costruiscono templi alle virtù: essi sono lungo la Via, e questa Via ha una direzione, che dalle profondità della terra porta al Tempio. Tale movimento è dunque necessariamente non solo rettilineo ma, simbolicamente, dal basso verso l’alto.

martedì 13 maggio 2014

La Caverna Iniziatica (parte 5)

Si osserva, a proposito dell’essere la caverna immagine del cosmo, che la Loggia, oltre ad essere illuminata interiormente è luogo in cui i lavori si svolgono “al coperto”. Essa è inoltre aperta alle influenze spirituali: alta fino al cielo e profonda dalla superficie della terra al suo centro. Anch’essa è quindi immagine del cosmo, con la terra che sorregge e il cielo stellato che “copre”. Caverna e Loggia presentano insomma numerose analogie, anche se non sufficienti ad affermare una identità fra i due elementi. Infatti, il tema della caverna compare anche in un altro punto, in cui assume un significato diverso e complementare: il gabinetto di riflessione in cui viene chiuso il recipiendario. Esso viene a volte identificato come prova della terra; il suo ambiente scuro è rischiarato da una candela; in cui si riflette sulla propria vita passata e sui simboli di morte da cui si è circondati. Il fratello terribile, d’altronde, annuncia all’aspirante massone che sta per essere precipitato in un abisso. La caverna sembra in questa fattispecie rappresentare la fase del buio e della presa di coscienza della propria insufficienza, primo passo necessario per il passaggio alla luce; tale passaggio ricorre simbolicamente con lo svelamento che avviene una volta compiuta l’iniziazione. D’altronde, anche se collocato in una fase preliminare all’iniziazione, nel gabinetto si trovano simboli relativi al lavoro iniziatico tra i quali in particolare uno, la scritta V.I.T.R.I.O.L., preannuncia questo passaggio dal buio alla luce: si tratta del lavoro di rettificazione, o di sgrossamento, della pietra, che comporta una discesa nell’interiore e che, nell’essere portato a termine, permette al compagno di dire che ha intravisto la stella fiammeggiante. A tal proposito, l’ occultum lapidem in interioribus terrae, non è forse l’equivalente di quella caverna del cuore a cui abbiamo già accennato?

mercoledì 7 maggio 2014

La Pasqua, episodio sacro, simbolo iniziatico (parte 2)




Laddove, nei miti di Dioniso e Orfeo ma anche in quello di Osiride e diversi altri, sono le forze infere, titaniche a essere responsabili del sacrificio, nella tradizione indù sono, al contrario, i deva, corrispondenti alle forze angeliche, a sacrificare Purusha, l’Uomo Universale, da cui sono originati tutti gli esseri manifestati e di cui Sayidina Aissa (‘S), il Cristo, è il rappresentante per la tradizione cristiana. Secondo quest’ultima, infatti, è con il suo sacrificio che egli ha rinnovato la creazione, ovvero ha ricreato l’universo. Quella che può sembrare una contraddizione, lo scambio di ruolo, cioè, tra forze angeliche e infere, rientra perfettamente nella logica del simbolismo tradizionale, dove, a seconda della prospettiva, un simbolo può avere un duplice aspetto: in questo caso, la stessa funzione si presenta, a seconda del contesto, come distruttrice o generatrice. Lo abbiamo visto anche nel post precedente, a proposito del ruolo degli strumenti di tortura, che servono alla crocifissione. Dipende dall’angolo di visuale in cui ci si colloca e quello indù si pone a un livello più elevato degli altri sopra elencati, in quanto prende in considerazione direttamente la volontà divina, in base alla quale, nel mito di Purusha, l’Uomo Universale si sacrifica di sua propria iniziativa, con la complicità cosciente delle forze che, in realtà, da lui non sono distinte ma in lui sono contenute. Il sacrificio primordiale e atemporale di Purusha è lo stesso dell’Adam Qadmon nella tradizione ebraica, tradizione in cui la missione del Cristo era radicata, a motivo del suo ruolo di rinnovatore proprio di quest’ultima.
In alcune raffigurazioni sacre della crocifissione, la rosa che nasce dal sangue versato dal Cristo non si sostituisce allo stesso Cristo al centro della croce, come nel caso dell’emblema rosacrociano, ma fiorisce ai piedi del Legno. In altre parole, sboccia sulla sommità del monte Calvario, il cui nome sembra rimandare direttamente al teschio di Sayidina Adam (‘S), Adamo, raffigurato in altre immagini di questa natura. Si tratta di una tautologia frequente nell’ambito del simbolismo tradizionale. È nel sacrificio cristico, infatti, che viene rinnovato l’uomo vecchio, l’Adamo decaduto, di cui parla s. Paolo. Vi sono poi delle versioni, ricollegate al mito del Graal, in cui il sangue che stilla dalla ferita al costato del Cristo, inferta dalla lancia di Longino, è raccolto in un calice, da cui, peraltro, il simbolo del fiore non si discosta molto. Quest’altra prospettiva consente meglio di comprendere il ruolo di questo sangue versato, che non è infatti altro se non la rugiada celeste o bevanda di immortalità, che il Graal ha la funzione di conservare. D’altra parte, uno dei significati del Graal è anche quello di centro tradizionale che, proprio come un calice, svolge la funzione di deposito della dottrina sacra di una determinata tradizione.
Ora, il centro in questione, per gli ebrei e per i cristiani, è Gerusalemme, proprio la città dove si verifica l’episodio della crocifissione. È quindi Gerusalemme il centro, il Cuore del Mondo, per le tradizioni ebraica e cristiana, e colui che si insedia in questo punto centrale, di cui Gerusalemme è un simbolo - nel punto, cioè, in cui le condizioni che regolano la manifestazione terrestre si intersecano con l’asse che permette di ascendere agli stati superiori, fino all’identificazione con la propria essenza divina - ebbene costui è tale da divenire egli stesso Cuore, Centro del mondo e asse di risalita al Cielo, per coloro che ne riconoscono la funzione. È Gerusalemme stessa, come la terra desolata del re del Graal, a beneficiare della rugiada vivificatrice, rappresentata dal sangue del Cristo, tale da far guarire la ferita da cui lo stesso re era afflitto; altra immagine, come quella del teschio di Adamo, della condizione umana decaduta, dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. Per tornare all’immagine del Cristo, Cuore del mondo, la ferita al costato è a volte sostituita dalla lettera ebraica iod origine di tutte le lettere dello stesso alfabeto ebraico, così come origine di tutti gli esseri manifestati è colui che, come lo stesso Cristo, ha riattualizzato nel mondo la presenza dell’Uomo Universale. È precisamente da questo punto principiale, all’interno del cuore, che scaturiscono il Sangue spirituale e l’Acqua della Vita, in grado di condurre alla resurrezione, intesa come compimento della Grande Opera alchemica. Concludiamo, infatti, con un’ultima immagine, quella che simboleggia il traguardo dell’Opera stessa ovvero la Pietra Filosofale: un triangolo rovesciato, sormontato da un croce. Considerando che il triangolo rovesciato è un’altra immagine tradizionale del cuore, quanto detto finora permette di trarre le debite conseguenze.